Cairo

Cairo, ottobre 2009
Cairo, ottobre 2009

Cosa si può capire trascorrendo un week-end di lavoro in una città della sua essenza, cioè delle persone la vivono?

Direi quasi niente. Ma ci sono comunque sensazioni, scampoli di vita catturati casualmente e fissati in immagini all’interno della nostra memoria. Obiettivamente, attraversano la città per la prima volta a bordo di un taxi, si comprende come funzionino gli incentivi alla rottamazione e dove finiscano i nostri scarti meccanici visto che gli sfasciacarrozze non traboccano: lo stato mette i soldi e qualcuno poi vende i catorci all’Egitto.

Centinaia, migliaia di questi ruderi vagano in percorsi apparentemente casuali: Fiat 127, 128, 131, 132, 1100, ma anche peugeot e renault risalenti alla stessa epoca. Che senso ha? Voglio dire, a parte finanziare le case automobilistiche, che senso ha rottamare dei ruderi in Europa per ritrovarli poco più a sud? Se c’è smog anche sull’Everest e regolarmente le nostre auto si coprono di sabbia del deserto, possibile che i prodotti tossici di quei mezzi non giungano fino a noi?

La seconda sensazione, riguarda gli abitanti. Anzi, le giovani abitanti. Oltre ai nostri scarti di civiltà moderna, abbiamo esportato anche la nostra spazzatura culturale. E così si possono osservare, a decine, ragazze dai lineamenti eccezionalmente dolci e belli, fasciate da jeans attillatissimi, dall’incedere sicuro nonostante i sette – otto centimetri di tacco ed indossando i panni delle nostre modelle anoressiche. Dove trovarle? Principalmente la sera al Sequoia, locale “in” a Zamalek proprio dove due rami del Nilo si ricongiungono, frequentato dai giovani “bene” di Cairo. Qui, queste ragazze, accompagnate da altrettanto stereotipati ragazzi, si mescolano a loro coetanee con l’ hijab. E mentre fumano il  narghilè si isolano dal mondo, intente a comporre messaggi col cellulare.

E da questo uso compulsivo non si salvano nemmeno le donne in niqab. Avrei voluto scattare una foto a tre donne nascoste dietro il loro niqab nero, sedute su un divano d’albergo con gli occhi fissi sul display del telefonino, ma ho desistito perché quel velo mi è sembrata una barriera che non voleva essere infranta.

Se sia giusto o no che queste donne siano costrette a portare il velo mi pare ovvio, non è giusto. D’altra parte non è nemmeno giusto che, se vogliono farlo, sia loro impedito, ovunque si trovino. Però quell’uso smodato del cellulare, indotto dalle liturgie del consumismo, capace di superare anche i dogmi dell’integralismo religioso più becero, è giusto?Senza voler far morale quale dei due comportamenti è socialmente più grave?

Cairo, Ottobre 2009
Cairo, Ottobre 2009

Ma Cairo non è solo questo, è anche la carogna di un cane che giace sul bordo della strada facendo da didascalia alle vele colorate delle feluche che risalgono il Nilo sfruttando le brezze pomeridiane e… i cavalli del motore.

E’ anche migliaia di palazzi completati a metà (così si risparmia sulle tasse, mi è stato spiegato), con coperture approssimative zeppe di parabole dall’irrealistico colore rossastro della sabbia del deserto

Ed è anche la bottega di un vecchio artigiano che, come suo padre, confeziona piccoli oggetti d’argento da acquistare a buon mercato, non prima di aver trattato davanti ad una tazza di caffè , e poi portare con se per offrire come piccolo presente a chi si vuol bene.

Ma Cairo,  per chi come me ci ha trascorso solo 36 ore, è soprattutto caotica disponibilità verso il prossimo. Si, perché nel caos di veicoli lanciati a velocità irragionevole in improbabili traiettorie mischiate a carretti trainati da cavalli od asini, di suoni e di odori, si trova sempre chi volentieri presta aiuto allo spaesato, a tratti basito, straniero.