Nano management

Disegno generato con AI Imagen 3 da gemini.

Ormai la parola “nano” è decisamente inflazionata. La stessa umanità che costruiva la torre di Babele per sfidare Dio oggi si esalta nel realizzare il minuscolo. Nano, appunto.

E così, più per dileggio che per altro, perché non applicarla anche alle enclavi del potere economico, ai circoli esclusivi che governano le aziende? Si badi bene, in questi casi il “nano” lo si può appiccicare a tutto tranne che ai mega-compensi.

E allora proviamo a parlare del nano-management e, ovviamente, dei nano-manager, quelli dell’obiettivo da conseguire “whatever it takes”.
E’ necessario prenderla un po’ alla lontana, serve innanzitutto fare alcune distinzioni o, se preferite, dare alcune definizioni, così per accordarci sul linguaggio comune.

Partiamo dall’imprenditore che si può considerare la persona che avendo avuto un sogno, decide di intraprendere la strada verso quel sogno. Per arrivarci, ha bisogno di uno strumento chiave che si chiama “Azienda”, non una scatola vuota, ma un organismo vivente composto da tante entità viventi, persone. Esseri umani come lui. Ciascuno imprenditore della propria vita, ciascuno con un obiettivo o un sogno da raggiungere. Sembra tutto così bello, ma la realtà è piuttosto diversa. Nel gioco entra l’etica che dovrebbe accompagnare imprenditore e persona nel cammino verso gli obiettivi di ciascuno. Purtroppo, per scelta o per attitudine, nella maggior parte dei casi l’etica viene messa da parte, la lavoratrice o il lavoratore viene de-personificato e trasformato in mero mezzo di produzione ed il prodotto lo si dovrebbe chiamare, più correttamente, profitto.

Restiamo però nel mondo ideale, nel quale imprenditore e persona pariteticamente contribuiscono al conseguimento dell’obiettivo. Chi ha il sogno non sempre ha gli strumenti o la preparazione per poter pilotare l’azienda ed ha bisogno di figure “competenti”, gente che ha studiato in scuole specifiche che ha creato modelli appositi per queste cose. I manager. I gestori.
Non hanno visioni, ma sanno trasformare quelle altrui in strategie. Sanno, o ritengono di sapere, come “gestire” i mezzi di profitto (aka lavoratrici e lavoratori).

Sicuri di sé per aver letto quattro libercoli, magari ne citerò qualcuno più avanti, brandendo keywords come i Crociati facevano con le loro lame, ordinano, definiscono strategie spesso suicide, preferiscono l’efficienza all’efficacia ma, soprattutto, considerano le persone una via di mezzo tra un cacciavite ed un somaro.
Certo, preferirebbero dei cacciavite ma essendo le persone esseri viventi tocca dar loro da mangiare ed accudire affinché restino produttivi, somari appunto. Il fatto è che questa loro sicurezza di sé altro non è se misera sicumera e si sa, non esistono eroi ammantati di sicumera.
Per questa ragione, non amano i rischi e cosa c’è di meglio se non scaricarli? Ed allora si spalancano le porte a battaglioni di consulenti. Persone dotati di esperienza, spesso solo millantata, che vengono pagati a peso d’oro per dirti cose ovvie, cose che chiunque dotato di un po’ di buon senso potrebbe dire. E siccome nella visione distorta che pervade il mondo del lavoro profitto = valore, più si fanno pagare e più, evidentemente, devono per forza valere.

Ora, credo, appare più facile definire il manager (quello di alto livello, il top) più comune. Egli è una persona che, accantonata l’etica del rapporto di lavoro, imbibita di teorie radicate nel profitto, affiancate da consiglieri poco utili, non può far altro che avere un unico faro, quello del profitto. Profitto personale, prima di tutto, e aziendale.
Intendiamoci, non sono tutti così, ma quelli di tipo diverso non li ho mai visti ai vertici di aziende multinazionali o comunque di dimensioni medio-grandi.

Avevo detto che avrei citato qualche libro, ce ne sarebbero veramente tanti, ma parlerò di uno che, se non fosse che ce lo stanno propinando in continuazione (intendo qui in u-blox), non avrei mai considerato. Penso che non mi sia mai capitato di imbattermi in cose così strampalate da quando ho smesso di interessami a certi scritti dei Chicago boys di Milton Friedman. Non fraintendetemi, non mi interessavano per i loro contenuti ma per riuscire a capire perché un personaggio come Friedman possa aver ricevuto un Nobel. In effetti però basta leggere i nomi dei Nobel per la pace e tutto torna, ma questa è un’altra storia.

Il libro in questione è “great by choice” di Collins e Hansen. Confesso, non l’ho letto tutto perché ho rispetto per me stesso, così mi son limitato a leggere le parti relative alle “lezioni” e le conclusioni relative.

La prima cosa che salta all’occhio è che è completamente privo di etica [del lavoro]. Non che sia anti-etico, proprio non affronta la questione. Ne è l’emblema il “whatever it takes”, che ci riporta al nano-management. Questa affermazione non significa assolutamente nulla, è una frase vuota perché del tutto irrealistica ed impraticabile. Mi spiego. E’ accettabile che in quel “whatever it takes” ci sia anche il fatto che io uccida, che so, mio figlio? O che compia degli atti illegali? O che compia azioni che portino al suicidio altri? O che facciano morire di fame? No, non è accettabile. O meglio, non lo sarebbe se si tenesse in considerazione l’etica. Scrisse Brecht: “Ci sono molti modi di uccidere. Si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra ecc. Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro Stato.” Esattamente, la differenza la fa l’etica.
Per questo, se sei disposto a dire una frase come “whatever it takes” o sei l’idiota di Dostoevskij o sei privo di etica. In entrambi i casi sei un pericolo per chi ti sta vicino.

Il libro poi spiega quali sarebbero le caratteristiche vincenti dei manager delle aziende di successo che loro hanno analizzato. Stiamo parlando di una statistica straordinaria. Quindici aziende. La puzza di cherry picking si sente da lontano, ma potrei sbagliarmi per cui, come si deve, li considero in buona fede.
Dunque, quali sono? Sono queste quattro: disciplina fanatica, paranoia produttiva, creatività empirica e ambizione. Da notare immediatamente che non c’è un attributo per “ambizione”, forse perché si rendono conto che sarebbe del tutto superfluo o si vergognavano di utilizzare, che so, “smodata”.
Stiamo parlando di “fanatismo” e “paranoia” due aggettivi che riconducono necessariamente a seri problemi comportamentali da trattare quantomeno con psicoterapia se non con farmaci adeguati.
Non si limitano a questo, naturalmente; c’è qualcosa che, onestamente, mi fa temere che gli autori siano cresciuti senza una mamma, perché sentono la necessità di dire qualcosa del tipo “attento che se cadi ti fai male” anche se la mascherano con “Creatività empirica”. Insomma dicono: “sii creativo ma prima di mettere in pratica la tua idea assicurati che funzioni”.
L’ultima caratteristica è l’ambizione. Non una semplice ambizione personale, ma un ambizione che fa coincidere quella personale con quella dell’azienda. Ora, se si trattasse di imprenditori, illuminati o meno, la cosa potrebbe avere un senso. Ma stiamo parlando di manager che probabilmente nemmeno sanno cosa significa “Azienda”. Lasciando stare l’etimologia (che ha a che fare con “le cose da farsi”), provo a dare una definizione di azienda consapevole che non troverà mai un riscontro in un testo come quello citato o nell’immaginario di un nano-manager: “l’azienda è un’insieme di persone che con il loro lavoro, finalizzato a realizzare un’idea, rendono migliore la società”.

Val la pena sottolineare alcune cose. Questa definizione di azienda non va intesa in modo riduttivo, ovvero che il miglioramento della società passi solo attraverso il lavoro e men che meno nel creare un’eguaglianza tra lavoratore/trice e persona, proprio perché una persona è molto di più di un mero lavoratore/trice. E nemmeno vedere il lavoro come la realizzazione della persona.
Vuole invece essere un modo di esprimere il principio che il lavoro deve essere “etico” e così anche i rapporti di lavoro. Esattamente ciò che un nano-manager si scorda, non comprende o sceglie deliberatamente di ignorare.

Sono giunto al termine e provo a riassumere il concetto di nano-management: è la gestione dell’azienda con idee alleggerite dell’etica del lavoro, guidata esclusivamente dal profitto finanziario, da persone la cui competenza è sostanzialmente non necessaria.

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