Prefazione

Gli scritti che troverai di seguito, caro amico o cara amica che stai leggendo, sono una raccolta di pensieri, di ricordi, legati al mio passato, più o meno recente. A volte potranno assumere la forma di una lettera inviata ad una persona cara, altre di un racconto di fantasia, di strofe ed altro ancora; questa mancanza di coerenza nella forma è dovuta (e forse anche nella sostanza) all’ aver messo giù questi scritti man mano che ne sentivo il bisogno. Voglio anche precisare che, al momento di renderli pubblici, la fine non è ancora stata scritta e forse, mai lo sarà.

Un’altra precisazione che tengo a fare è che tutto quello che leggerai l’ho scritto per me, per cercare di riscoprirmi. Per questo non ho alcuna presunzione che possa piacere, essere condiviso o apprezzato, ma solo la speranza che possa essere letto e, mediante questa lettura, divenire momento di rilassamento se non meditazione per te che hai appena iniziato a far parte del mio pellegrinaggio.
Attenzione, però: se le cose che leggerai dovessero piacerti, è giusto che tu sappia che non rappresentano me, rappresentano solo una parte di me. Infatti, anche se il mio viaggio alla ricerca di Jaco non è concluso, ho capito che dentro di me (come del resto in tutti noi) si celano tante essenze diverse, alcune delle quali, a dir poco, spiacevoli. Ad un certo punto mi resi conto di questo e scrissi dei versi, poco poetici ma che ben rappresentano quello che voglio dire; li riporto in questa parte affinché tu ne sia consapevole.

GUARDAMI!
Vorrei che nudo mi vedessi
Spogliato di questa squallida coercizione.
Idealista, romantico, altruista.
Vorrei che così mi vedessi.

Presto scopriresti questa nuova veste
Squartata dagli artigli dell’orrida bestia,
Dalle sue zanne sanguinanti,
Del mio stesso seme l’immondo grembo riempito.
E se resistessi alla terribile visione,
Allora vedresti l’orribile partorire:
Me stesso!
Vestito di questa squallida coercizione.
Disprezzami se vuoi!
Odiami se puoi!
Ma non voltar il viso
Lasciandomi nell’indifferenza.

 

Le Origini

 

(Lettera mai spedita)
Trieste, maggio 2002.
Ovviamente avrei voluto cominciare con “non so se ti spedirò mai questa lettera”, ma anche se rispecchia quello che sto pensando ora, sarebbe stato … superfluo, ecco la parola giusta.

Ciononostante, è stato utile: in un modo o nell’altro ho cominciato.
Ho cominciato a raccontarti di questi ultimi miei sedici anni. Non preoccuparti, non ho intenzione di tediarti raccontandoti la mia piuttosto noiosetta esistenza recente, ho solo desiderio di parlare un po’ con te. Anzi, data l’epistolare “mono-direzionalità” del mezzo, di parlare un po’ a te.
Come puoi ben notare, sono molto incerto nell’incedere, il perché è presto detto. Sono indeciso se girare intorno al tema fondamentale, arrotolandomi in una miriade di premesse o dichiararlo e poi esplodere una valanga di spiegazioni. Conoscendoti, la tua risposta non lascerebbe dubbi. Bene, vada per la seconda!
Tutto cominciò in un lontano agosto 1986, quando, come il ragazzotto di campagna che per la prima volta arriva in città, rimasi stordito nell’entrare a far parte di una macchina infernale: il mondo delle assicurazioni. Retorico, molto retorico come inizio. Pazienza.
In ogni caso, per quanto questo fatto abbia influito su di me in modo significativo, è ben poca cosa se anche solo avvicinato e non paragonato all’incontro che feci in quel luogo. Gonfia il tuo io, perché è di te che sto parlando!
Già, e da quel momento, non c’è stato giorno in cui non abbia pensato a te e non ti abbia rivisto con gli occhi del ricordo e … di tanti altri sentimenti che di ora in ora, di giorno in giorno, si sono intrecciati.
Se ti stai preoccupando, lascia stare; non sono qui per “chiedere” o per qualunque altra cosa del genere, ma solo per ricordare, e nel ricordo, dare un po’ di soddisfazione al mio ego attraverso l’illusione di poter lasciare comunque una ulteriore traccia del mio passaggio in questo mondo!
E se, invece, non credi a questa “quotidiana rimembranza”, pazienza. Ma sappi che le immagini sono talmente forti e scolpite nella mia mente, che potrei descriverti puntualmente centinaia di situazioni a partire, da com’eri vestita il giorno del mio ventiquattresimo compleanno.
Non voglio, però, darti l’impressione del malato, del turbato o del pazzo. Sono solo ricordi. A volte dolci, a volte un po’ meno. Ma che cos’è la nostra esistenza se non un infinita teoria di ricordi ravvivata di tanto in tanto da desideri, sogni e speranze?
Rimorsi o rimpianti? (Te lo ricordi questo?) Rimpianti, rimpianti! Di questi è ricca la mia vita, se la guardo con sincerità. E la tua? Spero di almeno di gioia, se non di felicità!
E di tutti i miei rimpianti, uno voglio togliermelo: quello di aver vissuto senza mai scriverti questa lettera che, spero, ti faccia sorridere e se mai dovessi trovarti in un momento di tristezza o di dubbio sul senso della vita, mi piacerebbe che leggendo queste parole, ti risollevassi un po’. Presuntuoso da parte mia, lo so, ma che farci?
Ti racconterò (anche se non me l’hai chiesto!) un aneddoto. Tanti anni fa, in un paese lontano, viveva…. Ma che dico?
Andavo al liceo ed essendo ripetente (somaro!) cercavo di sfruttare il carisma che in ogni caso derivava ad questo stato. Questo fatto fece si che una ragazza (che peraltro mi piaceva) si innamorasse di me. Credo che sarebbe più giusto dire si invaghisse, ma siccome la storia è mia, dico si innamorasse, oh là! Fatto sta che, innamorata o invaghita che fosse, non mi disse nulla. A me piaceva e, quando ci fu l’occasione di potercelo dire, nessuno dei due andò fino in fondo. Così entrambi rimanemmo con il nostro dubbio.
Solo molti anni dopo, seppi (voce del verbo seppiare, andar a seppie) da un ex compagna di classe come stavano realmente le cose.
Ebbene, questa notizia, mi ha dato un po’ di gioia. E mi ha fatto pensare che, anche se ora non più, un tempo almeno un po’ di fascino lo esercitavo.
Si, si, infierisci pure. Già rivedo quel tuo sguardo, quel tuo sorriso ironico: illuso mi dici. Ma so che scherzi, e quindi mi fa piacere.
Perché ti ho raccontato questo aneddoto?
Primo, perché se ti dovesse accadere di dubitare del tuo fascino, sappi che almeno in passato non è stato così.
Secondo, perché forse così ti ho finalmente dato quella carezza che avrei sempre voluto darti!
E poi, un sacco di altre ragioni che meglio appariranno nel corso di questa lettera.
Hai presente i sogni? Quelli in cui ti svegli di soprassalto e per un breve ma intenso istante non puoi distinguere tra sogno e realtà? Quell’attimo nel quale da sveglia rivivi le sensazioni del sogno, assaporandone la vividezza? A volte sono incubi terribili, altre sono così dolci che ti fanno maledire il risveglio? Ne ho fatto uno, un giorno. Mi son svegliato con il tuo sapore sulle labbra, con il tuo profumo sulla pelle…
Credo di avertelo già raccontato, anche se per il mio senso teatrale non l’avevo firmato, certo (o meglio desideroso) che tu avessi riconosciuto comunque il mittente. O sbaglio?

IL SOGNO
Mi son svegliato,
con il tuo volto negli occhi,
con il tuo profumo sulla pelle,
con il tuo sapore sulle labbra.
Mi son svegliato, maledizione!
(E tu non c’eri)

E se non mi firmassi nemmeno stavolta? Sarei solo uno scemo, perché, che sia io sarebbe comunque evidente. E poi, sto scrivendo proprio per evitare che certe cose vadano perse, e per questo voglio dirle come stanno, senza indovinelli o piccoli misteri.
Ciao.

JACO

Ma qual è il mio vero io? Come sono veramente?

Capita a volte di scordarsi di una persona, di rimuoverla completamente dai propri ricordi come se non fosse mai esistita. Ricordo che un pomeriggio d’inverno me ne stavo seduto in riva al mare in quel di Barcola, meditando esattamente su questa cosa. Il sole era tramontato e dalla superficie si era sollevata una nebbiolina; leggera all’inizio si era fatta più densa ed ormai potevo scorgere le persone apparire un pezzo alla volta, via via che mi si avvicinavano. Il busto, poi le gambe e le braccia. E poi, com’erano apparsi, così sparivano: dapprima le braccia, poi le gambe ed infine non restava più nulla: erano stati inghiottiti dal respiro del mare.
Di tanto in tanto qualche irriducibile dello jogging passava corricchiando quasi senza far rumore, la nebbia assorbiva tutto, luci, suoni, rumori, persone.
Il suono di un clacson mi riportò ai miei pensieri. E’ veramente possibile cancellare completamente dalla memoria una persona? Intendo dire al punto che, avendola di fronte, non si riesce a riconoscerla, non vi si trova nulla di famigliare.
Non so perché questo pensiero si era andato formando, ed anche allora pi parve strano. Certo è che pensando a ciò, non mi accorsi della persona che si era materializzata davanti a me, sublimandosi dalla nebbia.
Mi accorsi che qualcosa in lui stava attirando la mia attenzione, non sapevo che cosa fosse ma immediatamente dopo mi resi conto che mi stava fissando. Era uno sguardo sorpreso, ma non di chi si trova di fronte inaspettatamente qualcuno, era lo sguardo di chi non si capacita di non essere riconosciuto.
“Ciao, Paolo”, mi disse e si sedette accanto a me, “è tanto che mi aspetti.”. Mi sentivo confuso, ma chi era costui? E perché invece che pormi una domanda, faceva un’affermazione?
Era tutto così assurdo. Io non stavo aspettando proprio, nessuno né da tanto né da poco.
Stavo per alzarmi ed andarmene quando, improvvisamente, mi tornarono in mente i miei pensieri: è possibile cancellare dalla propria mente una persona?
Ora tutto cominciava ad avere un senso logico: il mio subconscio aveva percepito la presenza di quel tale che mi fissava e che evidentemente non avevo inquadrato. Ora mi giro verso di lui, pensai, e lo riconosco.
Quanto mi sbagliavo! Mi voltai: un perfetto sconosciuto.
Cominciò a parlarmi: “So che tutto questo ti sembra insensato, ma se avrai la pazienza di ascoltarmi, tutto ti si chiarirà.” Le sue parole mi arrivavano morbide, trasmettendomi calma e serenità; decisi di ascoltare cosa avesse da dirmi.
“Effettivamente”, cominciò a dire dopo un sospiro, “è da così tanto tempo che non trascorriamo un po’ di tempo assieme, ma da questo a non riconoscermi più! Non lo avrei mai creduto possibile, ma anche questo ha una ragione, ha un senso.”
Passato lo stupore iniziale dissi: “Tanto per romper il ghiaccio, qual è il tuo nome?”.
Mi pentii immediatamente di aver pronunciato una domanda così inutile ed idiota. E difatti la sua risposta fu: ”A questo punto, credi che serva realmente a qualcosa dirti un nome?”.
No, non aveva alcuna importanza, sapevo che, qualunque fosse stato il nome, non avrebbe significato alcunché per me. Sapevo che prima o poi, ci sarei arrivato da solo. Bene, mi dissi, a questo punto tanto vale vedere dove si va a finire. Il tempo non mi mancava e, tutto sommato, ero nello stato d’animo giusto per ascoltare. E, istintivamente, mi rendevo conto che si sarebbe dimostrato un ascolto interessante.
Così decisi di invitarlo a parlare. “Dimmi, dunque” gli dissi.
“Come sempre, come dovresti sapere, ci sono domande senza riposte e … risposte senza domande. Il nostro lavoro è quello di abbinare in modo sensato domande e risposte.
Fin qui, il lavoro semplice.”
“Fai presto a dire semplice! Ma la realtà delle cose è che non sempre si riesce a creare l’abbinamento!” Mentre dicevo queste cose, mi resi conto di quanto fosse stizzito il mio tono di voce. E questo mi dispiacque, in fin dei conti gli avevo chiesto io di parlare. Così mi ripromisi di non interromperlo ancora, ma di ascoltare fino alla fine ciò che aveva da dirmi.
“In effetti” disse, “ all’inizio le cose appaiono tutt’altro che semplici. Tutto ci sembra faticoso e lo sconforto sembra aver deciso di seguirci come un’ombra. Questo dipende dal fatto che ci scordiamo sempre della maggior parte delle nostre facoltà. Ti faccio un esempio. Appena venuto alla luce, un neonato sa già nuotare, sa che sott’acqua deve tenere la bocca chiusa, sa che per mangiare deve attaccarsi al seno materno, e così avanti. Poi cresce e i genitori decidono ad un certo punto che è opportuno che ‘impari a nuotare ’. Ecco il punto, deve imparare qualcosa che sa già. Che senso ha?” Fece una pausa e si capiva che si sforzava di trovare una risposta sensata a questa domanda. Finalmente riprese a parlare.
“Non ha molto senso, ma alla fine si tratta di vedere anche con gli occhi della ragione quello che molto meglio si vede ascoltando il proprio corpo nella sa completezza. In ogni caso, abbinare risposte e domande significa prima di tutto ammettere che la ragione è uno degli strumenti per comprendere, non LO strumento.”
Smise di parlare, ed era chiaro che lo faceva per dare il tempo a me di riflettere sulle sue parole. Così cercai di ripetere quello che aveva cercato di trasferirmi. Osservai ancora quel volto, ora mi stava diventando ancora più familiare. Osservavo le nuvolette di vapore che si formavano ad ogni suo respiro, dopo qualche istante mi resi conto che stavo respirando in perfetta sincronia con lui.
Il nostro respiro era rilassato e profondo: lunghe inspirazioni che parevano voler assorbire tutta l’energia del mare, seguite da una breve pausa così da consentire al sangue di ossigenarsi bene, e da una lenta espirazione. Sentivo che mi stavo rilassando, che lentamente tutti i muscoli abbandonavano le tensioni. Stavo bene. Anni dopo, imparai che quegli esercizi di respirazione sono alla base di alcune tecniche Yoga di rilassamento e che, mediante questo tipo di esercizi, si riescono a migliorare le prestazioni d’apnea.
Il mio sguardo si perdeva lontano dove il buio della notte si fondeva con il mare. I miei pensieri vagavano guidati da quanto avevo appena sentito. Ebbi un sospiro e riflettei che, quantomeno avevo trovato un modo per rilassarmi e star bene con me stesso.
A questo punto, riprese a parlare.
“Ogni giorno ti domandi chi sei realmente, qual è il tuo destino, perché le cose non vanno come dovrebbero e cosi via. Ed ogni giorno, non trovi le risposte a queste domande. Forse dovresti per prima cosa chiederti come mai non riesci a trovare le risposte. A questo quesito, è facile dare una risposta: le risposte non le trovi perché non riesci a sentirle. E non le senti, solo perché non vuoi farlo. Hai il terrore della risposta che potresti ricevere a queste tue domande!”
—– Continua (forse!) ———

Incontro inatteso

Il terrore della risposta, il terrore della risposta! Queste parole avevano preso a martellarmi, a risuonare senza fine nella mia mente. Rappresentavano allo stesso tempo una minaccia ed una tranquillizzazione.
Erano una minaccia perché segnalavano che dentro di me avrei potuto trovare anche qualcosa di spiacevole, il rischio di dover fare i conti con un me stesso che non avrei certamente amato. Ma erano ance la risposta ad una delle domande che più mi assillavano: dove avrei trovato la risposta alle domande ce mi ponevo? Ora si era aperta una traccia, dentro di me avrei potuto trovare tutte (o quasi) le risposte.

Non era poi male, pochi minuti trascorsi con quell’estraneo ed avevo fatto dei progressi enormi nella comprensione di alcuni aspetti della mia esistenza, del mio essere. Non male veramente.
Quello sconosciuto ora mi stava fissando con un sorriso soddisfatto stampato in faccia; evidentemente dal mio volto trasparivano i miei pensieri e quindi la certezza che le sue parole avevano raggiunto il primo risultato. Per un attimo ebbi la sensazione che forse non era così sconosciuto, che quella luce in fondo agli occhi l’avevo già vista. Ma dove? E quando?
Questi pensieri si dissolsero non appena riprese a parlare.
“No, non tentare di ricordare. Non ricorderesti, non sei ancora riuscito ad arrivare fino al punto di riconoscermi. E poi, credimi, ha ben poca importanza.”
A questo punto, inaspettatamente si allontanò. Stavo per chiamarlo, per chiedergli di ritornare indietro. Ma sapevo che sarebbe stato del tutto inutile, avrei potuto anche tentare di oppormi e forse farlo restare, ma sentivo che le cose DOVEVANO andare in quel modo, così mi limitai ad osservare il suo corpo smaterializzarsi un pezzo alla volta nella nebbia.
Per un po’ restai immobile con lo sguardo perso alla ricerca di quella impalpabile linea di separazione tra mare e cielo ancora più incerta ed indefinita in una serata di nebbia.
Ancora le sue parole risuonavano nella mia testa mescolandosi a nuovi pensieri, nuove domande che si andavano formando nella mia mente. Socchiusi gli occhi cercando di focalizzare quei pensieri, di afferrarne uno al volo e rimanere aggrappato ad esso finché non avrei capito. Ma erano troppo sfuggenti e decisi di non tentare imprese impossibili, almeno per quella sera. Respirai profondamente e mi abbandonai al silenzio della nebbia che rendeva la risacca un fruscio lontano, lontano…
Ormai si era fatto tardi e diventava necessario rientrare a casa, anzi, rientrare nel mondo. Il ritorno fu piuttosto brusco, le luci dei veicoli ferivano le mie retine, ed il loro rumore risultava particolarmente fastidioso, sembrava che la nebbia cosi amica avesse perso il suo magico potere.

Nei giorni successivi non mi capitò di pensare molto a quell’incontro, anche se a volte, soprattutto la sera, mi ritrovavo a rivivere le sensazioni di quella sera: la nebbia, i rumori ovattati, le luci diffuse dalla sospensione. Erano sensazioni piacevole e quindi non facevo nulla per allontanarle, anzi, appena mi rendevo conto del loro svilupparsi nella mia mente, cercavo di concentrarmi su di esse per ottenere il maggior beneficio possibile.
Improvvisamente un giorno ebbi l’impulso a tornare li, in riva al mare, convinto che avrei ritrovato il mio misterioso e sconosciuto amico. Decisi così che quella sera sarei ritornato sul luogo dell’incontro ed avrei atteso il suo arrivo.
Mi sedetti esattamente nello stesso posto in cui mi trovavo il giorno del nostro primo incontro, inizialmente ero nervoso, guardavo a destra ed a sinistra alla ricerca di quel volto. Non c’era nebbia, e la luce dei lampioni rendeva facile riconoscere le persone da lontano. Dopo un po’ smisi di cercarlo e mi soffermai ad osservare il nero profondo del mare, gli scintillii dei riflessi delle luci della città su quella superficie quasi piatta. Benché fosse novembre inoltrato, non faceva per nulla freddo e lo starsene li seduti non era per nulla spiacevole.
Non si fece vivo. E dopo un paio d’ore d’attesa me ne andai, per nulla stupito di quel mancato appuntamento. In qualche modo sapevo che non sarebbe venuto, in qualche modo questa certezza era in me fin dal momento stesso in cui decisi di andare in quel posto.
Giorni dopo il mio stato d’animo improvvisamente cambiò, sentivo un’enorme pressione, ero stanco, stanco di lavorare, di respirare, di camminare, di esistere. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo, anzi la mia immagine riflessa mi infastidiva. Di nuovo quella domanda si fece insistentemente spazio nei miei pensieri: è possibile dimenticarsi di qualcuno cancellandolo dai ricordi fino al punto da considerarlo mai esistito?
Ma chi era costui? E, soprattutto, perché questa domanda si ripresentava così, apparentemente, senza alcuna ragione?
Le volte che uscivo di casa lo facevo sempre svogliatamente, distrattamente. Capitava spesso che attraversavo tutta la città senza una meta precisa, immerso nei miei pensieri. Non vedevo nemmeno quella moltitudine di sconosciuti che si muoveva all’unisono alla ricerca di come spendere i propri soldi in inutili regali natalizi. Alle volte muovermi contro quella corrente risultava impossibile, così mi giravo e mi lasciavo condurre da questo fiume in piena nella direzione opposta a quella che avevo scelto. Tutto sommato importava poco, non avevo una meta precisa.
Durante una di queste uscite, qualcosa, o meglio qualcuno, attirò la mia attenzione. Era girato di spalle, avvolto in un pesante cappotto grigio scuro, sciarpa e berretto si muoveva nella direzione della corrente ma con velocità maggiore. Così, per riuscire ad avvicinarmi, dovetti forzare quella massa informe di persone, attraversarla, trovare costantemente nuovi passaggi.
Via via che mi avvicinavo una sensazione si faceva sempre più spazio: era lui, lo sconosciuto. Doveva essere lui. La sensazione si trasformò in ansia, poi in agitazione. Se almeno avessi potuto raggiungerlo, vederlo in faccia. Era ormai a pochi metri da me, ma la densità della folla era diventata impenetrabile. Spingevo, schivavo, provavo a forzare, ma per quanti sforzi facessi riuscivo ad avvicinarmi di pochi centimetri.
Lo vidi salire su un autobus, ma me ne resi conto troppo tardi e non ce la feci a salire anch’io. Mentre l’autobus si allontanava, riuscii soltanto a vederlo in volto: era lui. Era certamente lui ed il suo sorriso mostrava che mi aveva visto. Che si era accorto della mia presenza e della mia volontà di raggiungerlo. Ero disperato, avevo faticato inutilmente. Mi fermai ad osservare il veicolo che si allontanava. Non tutto era stato inutile, ero riuscito ad individuare la linea. Immediatamente mi resi conto che quell’autobus andava nella direzione del mare, di quel luogo dove avvenne il nostro incontro. Era chiaro, mi avrebbe aspettato li.

Infanzia

Perché sono qui? Perché ho deciso di raccontarmi, di pubblicare i più intimi ricordi, le sensazioni più nascoste? E paure e le vergogne, perché?

Credo si possa dire per liberarmi, simbolicamente, per “uccidere il mio nemico [me stesso] e nutrirmene”.
Cominciamo, dunque, dalla fine. Da ora, questo preciso momento nel quale il peso di un rapporto difficile, a volte duro, costantemente spigoloso, mi sovrasta provocandomi un dolore spesso insopportabile. Nata da una scelta consapevole, in parte offuscata da passione ed amore, ma ponderata quel tanto da sapere quello che il futuro avrebbe probabilmente riservato, questa convivenza da opportunità di felice vita di coppia, si trasforma di tanto in tanto, tristemente, in guerra quotidiana.
E quando arriva il “periodo nero” questo, di per sé grave, si fa di giorno in giorno più duro, dal momento che non sono nato per battagliare, per negoziare sistematicamente usando ogni mezzo per prevalere. Anzi, è il desiderio di pace e serenità, è la ricerca di questa condizione che mi muove. Non voglio apparire “buono”, sono consapevole di quanti, forse troppi, lati negativi formano il mio carattere. E’ che ormai sono stanco di dover lottare.
E’ triste, però, ritrovarsi a quarant’anni in questa situazione, è triste dover riconoscere ancora una volta i propri errori. Ancora più triste è constatare che, buttata nel cesso metà della propria vita, quella che ci si appresta a vivere potrebbe essere anche peggio.
Bene, e veniamo allora alla prima donna della mia infanzia. Anzi, per l’esattezza, alla mia prima esperienza di carattere sessuale.
Avevo certamente meno di sei, esatto meno di sei, anni. Non mi ricordo l’età esatta, ma frequentavo la scuola materna.
Ora il ricordo si fa vivido, così chiaro che mi consente di rivivere le sensazioni di quel giorno. Si, sento che è la strada giusta.
Dunque, lei si chiamava Cassandra (nome inventato, questione di privacy) ed aveva la mia stessa età, era nella mia stessa classe.
Quel giorno le maestre decisero di portarci a vedere una proiezione nella sala dell’asilo. Le maestre, so che ne avevo due, ma una sola mi riaffiora ora tra i ricordi. Nella sua enormità, almeno tale appariva la sua stazza ad un bambino, coperta da un camice impietosamente aderente, incuteva timore. Ci costringeva a dormire dopo mangiato, seduti al banco con la testa posta su un braccio. Che fastidio, e che fastidio vederla inserire il retro della matita nell’orecchia per pulirla.
Scendemmo le scale, e prendemmo posto sulle panche; Cassandra era seduta accanto a me, alla mia destra. Si fece buio. Lei afferrò la mia mano e, dicendomi: “ti faccio sentire una cosa”, se l’infilò dentro le mutande.
Mi sentivo paralizzato, non sapevo che cosa stesse accadendo. Sentii però, chiaramente le dita della mia mano farsi umide al contatto con i suoi genitali. Umide e calde. Il contatto durò pochi secondi, non più, lei estrasse la mia mano e me la face annusare: “senti?”, disse.
Sentii, sentii odore di urina forse misto a sudore. Nient’altro. Oggi, se chiudo gli occhi, non rivivo la scena, non percepisco il calore: sento però distintamente quell’odore.
Non ebbi il coraggio di raccontare nulla a casa. Come potrebbe un bambino di cinque anni spiegare ad un adulto una cosa del genere? Semplicemente misi da parte quel ricordo. Né brutto né bello, semplicemente incomprensibile e, per questo, spaventoso.
Ora, mi rendo conto che quel fatto sarebbe diventato determinante, ed avrebbe influenzato tutta la mia vita. Ameno fino ad oggi.
Infatti, fino ad ora, ogni volta che ho avvicinato una donna l’odore dei suoi genitali mi ha sempre turbato, risvegliando in me il ricordo delle sensazioni di quel giorno.
Non mi da fastidio, non mi fa schifo. Nemmeno mi attira. Mi turba, questa è l’unica sensazione che riesco ad associare. Certo, mi eccita anche.
Da allora e fino all’età di dodici anni e forse anche più, ricordo che divenne una mania, una necessità vedere il sesso femminile. Quella parte del corpo che toccai, della quale fiutai l’odore senza averla vista.
——— Fine prima parte ————–

Appuntamento (dopo un incontro inatteso)

Mi ricordai di quel posto, mi ricordai con chi ero già stato lì.
Era un pomeriggio invernale, il buio era già quello della note, l’umido saliva dal mare. Dovevamo parlare, perciò eravamo lì. In silenzio, seduti, troppo vestiti per godere appieno del contatto spalla-spalla.
Le parole non uscivano, non sarebbero potute uscire, non da me almeno: non c’era nulla da poter dire a parole nella mia mente. Passarono attimi lunghissimi, e ricordo che ad un certo punto balbettai qualcosa sull’amicizia,  ma fui zittito quasi subito: non ha a che fare con l’amicizia, mi disse. I nostri sguardi si persero l’uno negli occhi dell’altra, le labbra si avvicinarono, di più, troppo, ancora oggi mi emoziono a pensarci.
Quel primo bacio fu timido ed impacciato. Sorrido e ricordo che anche i nostri incisivi superiori vollero partecipare schiantandosi.
Il freddo, quel freddo così indiscreto da insinuarsi tra di noi, rendendoci così goffi e gonfi di abiti e rendendo complicato l’abbracciarci così come avrei voluto. Così dispettoso da far colare il naso e impedendo di godere del suo profumo come avrei desiderato e potuto.
Quello stesso freddo che amorevolmente ci invitava ad avvicinarsi, a stringerci ed abbracciarci. Freddo invernale così profondamente legato al buio di giornate così brevi. Così dolcemente complici di un amore nascente, ignare di quello che sarebbe stato il destino di quell’amore.
Non potrei dire con certezza quanto durò quell’incontro, ma non esagero se, per certi versi, è come se fossi nato in quel momento, tante furono (e sono) le conseguenze di quel pomeriggio invernale.
Da allora sperimentai delle sensazioni completamente nuove. Un bisogno intenso capace di troncare a metà il respiro da stringere in una morsa violenta lo stomaco. Il dolore del distacco, in grado di generare voglia di autodistruzione, di portare alla pazzia. L’esplosione di gioia data da uno sguardo, dal suo profumo, dal riuscire anche solo a sfiorarla.
Ho scritto e riscritto non so quante volte questa parte per cercare di riportare almeno un po’ l’intensità di questi sentimenti, ho tentato di farlo a distanza di anni, ma ora mi rendo conto che mai riuscirò a farlo. E non potrò perché sono dentro di me così fortemente radicati da non poter uscire mai del tutto.
Ma quel giorno, nel buio di quel pomeriggio invernale, lì in riva al mare, un mare nero fuso con l’oscurità del cielo, le sensazioni furono potenti e dolci allo stesso tempo. Credo sia proprio questa la ragione per la quale, ritornavo li, seduto sullo stesso muretto, a contemplare il mare. Ed è in seguito a questo mio ritornare li che ebbi l’opportunità di incontrare quell’uomo che ora era su un autobus per andare ad un appuntamento non concordato, proprio in quel posto!
Volevo mettermi a correre dietro a quel maledetto autobus, ma non l’avrei mai raggiunto.
Dopo alcuni secondi di affannosa ricerca del modo più rapido per andare al mio appuntamento, realizzai che non c’era bisogno di tanta fretta poiché mi avrebbe certamente atteso li.
Così, decisi di rilassarmi ed attendere l’autobus successivo.
Osservavo le persone che attendevano insieme a me alla fermata, cercando di immaginare perché motivo sarebbero montate sul mio stesso mezzo di li a poco. La fermata si trovava di fronte alla stazione ferroviaria, e  quel tipico odore da stazione, misto di metallo, legno, combustibile, rifiuti, sudore arrivava fino a me.
Ero lì, di fronte alla stazione, in attesa di iniziare un viaggio che, nella sua brevità, mi avrebbe portato molto più lontano di quanto avrei mai potuto immaginare.
Avevo fatto un sogno, la notte precedente, un sogno piuttosto curioso.